Bari, 22 marzo – Paolo Villaggio era uno a cui piaceva andare ai funerali, e non aveva paura della morte, anzi – racconta Ricky Tognazzi – che ripetesse spesso a suo papà Ugo che avrebbero dovuto cercar di morire verso le 19 della sera, “appena prima del TG”, così che la notizia potesse essere riportata nel giornale più importante. Paolo Villaggio era facile alla noia; adorava la cucina giapponese e, altrettanto, aveva un rapporto di dipendenza dal cibo: è stato capace di “succhiare dei peperoni congelati presi dal frigorifero”, ricorda Diego Abatantuono. Paolo Villaggio era uno scrittore, addirittura tradotto con successo in Russia: i classici russi li consigliava sempre agli amici, tra questi Adriano Panatta, che non li lesse mai, finché Paolo non venne a mancare e allora poi li
recuperò tutti. Paolo Villaggio soffriva il giudizio della gente.
Era genovese, anche se lui stesso, in prima persona, nel prezioso materiale inedito girato dalla figlia Elisabetta, alla maniera degli Home Movie più tradizionali, racconta che gli sarebbe piaciuto nascere a New York o sugli Champs-Élysées di Parigi, ma la verità è che Villaggio, a quella sua città, in particolare a quell’angolo magico e fermato dal tempo che è Boccadasse, era profondamente radicato e innamorato, tanto che nel doc brama una “macchina da presa che possa incidere gli odori – il mare, la salsedine, le pietre – ricordo della mia infanzia”.
Nulla lo infastidiva più della stupidità e venerava l’intelligenza, ne è certo Tognazzi, figlio di uno dei suoi amici del cuore, insieme a Fabrizio De André e Vittorio Gassmann, che per il suo 61 compleanno gli scrisse una lettera, in originale mostrata e letta – nel film – dal figlio Alessandro.
Era un ansioso, Villaggio, ma anche un burlone, come quando da un set in Kenya diretto da Neri Parenti s’allontanò con la scusa di un’urgenza per la toilette e poco dopo lo videro volare a bordo di una mongolfiera, d’altronde “l’avevo prenotata”.
È Mostruosamente Fantozzi a raccontare il prisma umano e artistico dell’uomo e dell’attore, un doc diretto da Valeria Parisi, che debutta al Bif&st di Bari e stasera – 22 marzo 2024 – viene trasmesso in prima serata su Rai 3.
Dal palco del Teatro Petruzzelli, come uscendo dal grande schermo e entrando nella realtà, la sua personalità si disegna e ridisegna nelle parole di chi, per nascita, per amicizia, per arte, l’ha vissuto. Elisabetta, sua figlia – con il fratello Pierfrancesco, di cui nel doc non si nasconde il dramma della tossicodipendenza, raccontata da Villaggio in prima persona in tv, a Mixer da Minoli – voleva “raccontare mio padre in maniera intima e famigliare: la cosa più difficile è stato farsi intervistare, perché non aveva voglia, si annoiava. Infatti in tanti momenti non è in video perché non aveva voglia e mi diceva: ‘parlo, veloce, dai!’. Erano anni che volevo tirar fuori un doc usando anche quel materiale, girato con una telecamerina: tutto è iniziato nel 2006. Nonostante il suo modo cinico, che era un nascondere i sentimenti, l’affetto per gli amici l’aveva davvero: Ugo, Vittorio, De André, aveva voglia di condividere con loro e alleggerire quando sentiva qualcuno giù”.
Infatti, Ricky Tognazzi racconta che “si sono trovati tre depressi: Ugo, che quando lo è stato per quattro anni, Paolo gli portava Vittorio, che stava peggio di lui, e stavano in una stanza a fissarsi. Era il motore delle amicizie degli altri: come dell’intimità tra Ugo e Vittorio. In pubblico ‘parlava male’ di Ugo – ‘avvelenatore seriale’, ma credo abbia mangiato più volte a casa nostra che a casa sua. Soffriva di atarassia ma aveva bisogno di stima. Era chapliniano ma anche kafkiano, contraddittorio e per questo bello. Lui aveva la capacità di essere introspettivo, era un grande ascoltatore, quasi in maniera inaspettata: una vera intelligenza emotiva. Credo fosse l’uomo più intelligente che abbia mai incontrato”.
Secondo la figlia, la depressione è accaduta perché “sono stati così in alto col successo, che il diventare vecchi ha portato un pudore che li ha fatti nascondere”. Un “successo” che per Villaggio è stato soprattutto sinonimo del personaggio di Fantozzi, da lui dapprima scritto e poi interpretato, in primis diretto da Luciano Salce e poi da Neri Parenti, che ricorda “il primo incontro, professionale, quando io ero aiuto regista: poi ho avuto la grande occasione di dirigerlo nel terzo Fantozzi, avevo 27 anni, sapevo tecnicamente di cinema ma non gli avrei fatto ombra. Succede che mi mandano a casa di Villaggio, una casa di quelle con l’ascensore interno, da cui lui scende, in caftano: ‘cosa ci fai tu qui?’. Io mi presento. Lui: ‘sai che credevo fossi un altro?. Così, io faccio per andar via. Lui: ‘Neri? Ormai sei venuto te, fallo te’”.
Certo, per la più parte del pubblico Villaggio è Fantozzi, per una decina di volte s’è ripetuto il personaggio cinematografico – dal ’75 al ‘99 – ma successe anche che ormai aveva 60 anni quando Federico Fellini gli offrì La voce della luna, valorizzando così un Paolo Villaggio diverso, fuori dalla maschera di Fantozzi, come ha fatto anche Lina Wertmüller con Io speriamo che me la cavo, oppure, ancora, quando ha interpretato l’Avaro diretto da Strehler.
Il racconto documentario – che ospita, tra i testimoni, da Milena Vukotic a Walter Veltroni – si correda di una sorta di Virgilio traghettatore tra lo spirito e i luoghi genovesi e la fantasia del cinema, Paolo Bizzarri, anche lui genovese, seppur, forse, non un vero valore aggiunto di questo doc in cui la personalità di Villaggio, tra repertorio (tra cui materiali dell’Archivio Luce), filmati personali, e racconti di umanità vissuti “in presa diretta”, muovono le corde emotive di chi guarda, cioè noi pubblico, che siamo un po’ tutti dei Fantozzi nella vita, come teneramente e ironicamente racconta anche di se stessa la regista, Valeria Parisi, che riferisce come “stanotte mi sono svegliata
immaginando di arrivare qui al Petruzzelli in pigiama, con nessuno che guardava il doc, perché tutti parlavano, e il film veniva proiettato come fossero diapositive. C’è un po’ di Fantozzi in tutti noi!”, poi precisa che, per la realizzazione del film – prodotto dalla 3D Produzioni in collaborazione con Rai Documentari – “c’era appunto Elisabetta che avesse del girato meraviglioso: un fil rouge per raccontare la complessità di Paolo. Lei ha girato a Boccadasse e a Trastevere, oltre all’intervista fatta al nonno da suo figlio, sul terrazzo: non era un girato professionale ma le cose che diceva Paolo suonavano con un peso che andava ben oltre ed era soprattutto lui senza
maschera”.