
Roma, 23 gennaio (Francesca Palmieri) – Parte come una grande inchiesta di denuncia contro preti pedofili ma poi Spotlight di Tom McCarthy – presentato alla scorsa Mostra di Venezia e ora in sala con Bim dal 18 febbraio, accompagnato nella trasferta italiana da Michael Keaton e dal giornalista Walter Robinson – diventa anche una riflessione sul giornalismo e sull’impegno, che ha per protagonisti alcuni cronisti coraggiosi e decisi a raggiungere la verità.
I giornalisti in questione sono quelli del Boston Globe, che hanno fatto luce nel 2002 su una delle pagine più nere della storia della Chiesa, che fece clamore in tutto il mondo, finendo anche in tribunale. Sullo schermo, la squadra incaricata di indagare su tantissimi abusi a danni di minori a lungo tenuti nascosti e “protetti”, è composta, oltre che da Keaton, anche da Mark Ruffalo, Liev Schreiber, Rachel McAdams e Brian d’Arcy James, mentre Stanley Tucci ha il ruolo di un avvocato difensore delle vittime.
Lo scandalo coinvolse un alto numero di preti e anche il cardinale Law, arcivescovo di Boston che pur sapendo quello che stava succedendo insabbiò senza denunciare mai (e quando fu scoperto venne trasferito a Roma da Giovanni Paolo II).
Keaton per la terza volta ha vestito i panni di un giornalista: “Questo film è stato una benedizione – afferma – Nutro interesse per il giornalismo e quando mi è stato proposto questo copione l’ho trovato interessante e ben scritto, supportato da un ottimo cast. Il tema, abbinato al caso di abusi di sacerdoti sui minori, è stato il motivo per cui ho accettato il ruolo”.
E come si è preparato? “Ho passato del tempo con Walter, parlando di tante cose e tanti altri casi della sua carriera, non solo dell’inchiesta – risponde l’attore – Ho assorbito tutto quello che mi raccontava, gli ho fatto domande anche personali, per cercare di cogliere l’essenza della persona”.
Il film ha ricevuto sei nomination agli Oscar e presto sarà visto dal pubblico italiano: “Sono convinto che qui avrà un forte impatto come è avvenuto negli altri paesi – dichiara Keaton – Mi sento frustrato per i programmi orribili di giornalismo che vedo in tv e credo succeda anche in Italia. Ho partecipato a varie proiezioni e un uomo, uno dei sopravvissuti che non aveva mai confessato a nessuno di aver subito degli abusi, mi ha ringraziato per averlo realizzato”.
Aspetto importante, la pellicola “non punta il dito contro la religione in generale e va al di là della tematica che tratta – sottolinea Keaton – Mi rattrista che la gente abbia perduto la fede e si sia allontanata dalla Chiesa. La situazione non riguarda solo Boston ma tanti altri paesi nel mondo, quindi l’argomento suscita l’interesse di tutti i fedeli e anche in Italia, che è la sede del Vaticano. Il papa mi piace molto, sta facendo un lavoro enorme per portare il sasso in cima alla collina”.
Al centro della vicenda, aggiunge, “C’è il tema dell’abuso di chi ha potere e lo usa in modo illecito, contro chi non lo ha. Vale ad esempio anche per le forze dell’Onu, che dovrebbero garantire la pace in paesi poveri come l’Africa ma contribuiscono agli abusi invece di tutelare le persone che hanno bisogno di essere difese. Sono dei complici”.
Per Keaton, infine, “I giornalisti come il team di Spotlight sono dei veri eroi per quello che hanno fatto e continuano a fare. Hanno fatto la differenza”.
Chiamato in causa, Robinson analizza la realtà del settore: “Il giornalismo d’inchiesta in America è oggi come un malato terminale. L’avvento dei network e del web ha privato i giornali dei fondi necessari per svolgerlo e tanti posti di lavoro sono andati persi. I direttori sono dei pazzi a tagliare i fondi, perchè il motivo per cui i lettori prendono i quotidiani è il giornalismo d’inchiesta. E’ necessario che ci sia qualcuno che spinga le istituzioni ad assumersi le proprie responsabilità, chi altri può farlo se non noi giornalisti? Se smettiamo, vuol dire che la democrazia muore e la gente non può più informarsi”.
Cosa ha provato nell’essere impersonato da Keaton? “E’ stato un onore, quando l’ho saputo sono andato in estasi – dice – Nell’84, ero caporedattore di cronaca locale quando girò Cronisti d’assalto di Ron Howard e lo trovai perfetto in ogni dettaglio. Non potevo sperare di meglio, è stato molto professionale e ha imparato tanto di me, dal tono della voce alla gestualità e al mio modo di lavorare, per raggiungere il massimo livello di realismo”.