Venezia, 6 settembre- “Spero che il film comunichi al di là della mia vita qualcosa di universale”. Così Francesca Comencini fuori concorso alla 81esima Mostra del Cinema di Venezia con il suo Il tempo che ci vuole, in uscita il 26 settembre con 01 distribution, un film molto personale che rende omaggio a suo padre e che racconta il loro rapporto, tra cinema e vita, tra infanzia e adolescenza.
“Il film si basa sulla memoria e sui ricordi emersi in un periodo particolare- racconta la regista-.C’era un cono di luce che andava a mettersi su dei momenti reali, ma anche sognati come un teatro sempre aperto nella mia testa. La memoria procede in questo modo: è selettiva, mette in risalto e condensa. Marco Bellocchio, che ha prodotto questo film insieme a Simone Gattoni, Beppe Caschetto e Bruno Benetti, mi ha detto che questa forma di racconto era la più giusta”.
E poi: “Questo è un film che volevo fare da tutta la vita perché questo rapporto è stato il più importante della mia vita. Ho cercato di non essere percepita come figlia di, ma di distinguermi. Poi superati i cinquant’anni mi sono permessa di dire che sono la figlia di. Tutte le cose più importanti sulla vita me le ha insegnate mio padre. L’ho scritto durante la pandemia. Era per me una lettera d’amore anche al cinema. Sono arrivata a farlo quando mi sono sentita abbastanza matura. Ho collaborato con mia sorella Paola e ho condiviso ogni passaggio di scrittura con le mie sorelle. Il film procede come procedono i ricordi, non avrei saputo farlo in altro modo. Ma la memoria è un sempre aperto teatro, come dice Patrizia Cavalli”.
Protagonista nei panni del padre, nonché del grande regista Luigi Comencini, è Fabrizio Gifuni, mentre Romana Maggiora Vergano, che per questo film ha vinto il Premio Pasinetti come miglior attrice, ricopre il ruolo della grande regista. “Francesca ci è riuscita a comunicare quanto questa storia così personale dovesse diventare universale- dice Fabrizio Gifuni-. In questi anni ho interpretato tante volte personaggi realmente esistiti e Francesca è stata chiara a creare con noi questo gioco magico in questa bolla di non luogo, di non tempo e di non spazio che è poi quello delle fiabe. Pinocchio e la sua disobbedienza, la parabola della crescita, i fallimenti e le bugie, sono tutte cose connaturate in questo film. Siamo entrati in un dispositivo che somigliava a quello delle fiabe in cui si mischiava la realtà a un mondo immaginifico. Mi sono sentito estremamente libero”.
E Francesca Maggiora Vergano: “Avevo il terrore e la responsabilità di questo ruolo, ma per fortuna Francesca ci ha subito alleggeriti. L’incontro al provino è stato fantastico. È una regista che cercava in me qualcosa che le risuonasse. Non era dunque giudicante e io sono molto felice di questo”.
Nel film è molto presente il senso di fallimento che spesso si prova nella vita. Un fallimento che poi diventa spesso un motore per ricominciare. “Non bisogna sempre performare. Tutta la mia vita è stato un continuo destreggiarmi con il fallimento. Il fallimento fa parte della vita e come tu riesci a farne una lezione questo è un insegnamento molto importante soprattutto per i ragazzi”.
E Gifuni: “Quando ho letto la sceneggiatura avevo finito di fare un elogio della lentezza e del fallimento. Fallire tanto e fallire meglio è un’insegna della mia vita: prima si introietta questo pensiero meglio è. Noi sbagliamo continuamente e quel che racconta il padre è quanto questo senso di fallimento lo continui a provare costantemente. È una stortura che si tratta di riconoscere e tirare fuori. Si è costruita la cultura dell’essere performativi. Si è perdenti o si è vincenti: prima ci si libera di tutto questo e prima si vive meglio”.
Infine l’attore conclude: “Mi sono emozionato molto quando le parti si rovesciano e arriva la vecchiaia e la malattia e non sempre succede di avere una figlia che ti sostiene. Il potere del cinema, del teatro, dell’immaginazione e della fantasia può curare le ferite e trasformarle in bellezza”.